...

Quando ero piccolo ero fatto a cazzo

pallone2

(un pò lunghetto, vi avviso!)

Quando ero piccolo ero fatto un poco a cazzo, non nel senso che avessi organi o arti disposti come nei trattati di anatomia del primo ‘300, bensì nel senso che ero una vera peste. Questo mia madre me lo rinfaccia ancora oggi, non per cattiveria, ma per semplice amarcord.

Io ero un bambino sfortunato. Non che mi mancasse da mangiare, da vestire o le biglie o le figurine dei calciatori o gli psicofarmaci contro l’eccessiva motilità oculare. Nulla di tutto ciò.

Nel paese da dove vengo io si può essere bambini sfortunati per vari motivi. Il peggiore è sicuramente quello di abitare al settimo piano dell’unico palazzo di sette piani della zona.

Potrebbe sembrare una cosa ridicola invece non è così, queste sono cose importanti, che segnano una vita intera.

Quando il caso ha deciso che tu dovessi nascere in un piccolo paese mittel-mediterraneo come il mio, si è contemporaneamente fatto carico dell’occorrenza che tu dovessi passare l’infanzia a scorrazzare con orde di amichetti assassini tra le assolate stradine del vecchio borgo, circondato da casette basse e bianche, con i muri spennellati da poco con la calce, e vecchine affabili e barbute oppure vecchine terribili e barbute, che chiamavi tutte nonna o zia oppure nonno o zio, a seconda della peluria facciale più o meno accentuata, a tenerti amorevolmente d’occhio casomai davi fuoco all’aia.

Questo comune destino non fu riservato a me.

Io ero un bambino dei piani alti. Vivevo in cielo, lontano dalla vita di strada degli altri bambini, dal nascondino, dai primi calci al pallone (fu anche per questo che poi diventai un portiere, e che portiere!), dalle nonne e dalle zie, insomma, in poche parole, lontano dal vero divertimento.

Vieppiù, questa lontananza, io la vivevo con maggiore consapevolezza e sofferenza poiché, dall’alto, avevo una visione panoramica di tutto quello che accadeva di sotto. La caccia ai gatti ed alle lucertole, le iniezioni di benzina ai cani randagi, le overture notturne ai citofoni, i gavettoni, i mortaretti gettati nelle finestre degli anziani, le ambulanze che venivano a recuperare gli anziani colpiti da infarto, insomma, tutto quello che rendeva l’infanzia degna di essere vissuta intensamente, io lo vedevo come un miraggio, lontano ed inafferrabile, distante almeno 120 scalini ad andare e 120 a tornare.

Per compensare questa profonda insoddisfazione, che io decisi essere colpa dei miei genitori che avevano preso in affitto quell’appartamento così distante dalla terra abitata, avevo pensato di fargliela pagare cara, diventando un vero discolo, ma non uno così, tanto per fare, ma una piccola bestia di satana, uno scricciolo piangente e smoccolante con una strategia e degli obiettivi ben precisi tutti orientati a raggiungere un unico fine: fare in modo di potere, ad ogni costo, andare giù in strada a respirare l’odore dell’asfalto caldo e bagnato dalla pioggia dell’estate, impregnato del sangue di ginocchia e gomiti sbucciati, puzzolente dei piedi sporchi degli altri bambini.

Fu così che allora presi allegramente a lanciare qualunque cosa trovassi in casa giù dal balcone poiché avevo eletto la forza di gravità a mio amichetto immaginario. Il mio nuovo compagno faceva il suo gioco bene come nessuno. Portava ogni cosa lì, sulla strada, dove volevo andare io. Peccato che molte delle cose con cui solevamo giocare poi, subito dopo, cambiavano di forma e anche di stato.

Prima Legge della Gravità: una radio gettata dal settimo piano funziona fino a casa di Fabrizietto Mencoli, al primo piano, poi non più. Seconda Legge della Gravità: una sedia lanciata dal settimo piano ha come risultato che nessuno delle massaie dei piani sottostanti stenda più i panni da quel lato del palazzo.

Dopo alcuni dovuti miglioramenti alla mia strategia sovversiva, trovai che i tappeti, ed in particolare un tappeto appartenente al corredo matrimoniale dei miei, uno stuoino giallo e verde peloso come un sanbernardo, tipico degli anni ’70, fosse l’oggetto ideale da lanciare in strada. Almeno con quello avevi la possibilità di campare questa scusa: “Mamma, il vento ha fatto cadere il tappeto di sotto. Vado a prenderlo.” Con la radio non funzionava mica così.

Quel tappeto, e solo quello, aveva un peso specifico ed una superficie tale per cui svolazzava dritto giù quasi come un paracadutista della Folgore e non rischiavi di dover andare a riprenderlo sui balconi degli altri condomini e tanto meno sul terrazzo di un arcigno vecchietto, terrore di tutti i bambini del circondario, chiamato Mimino “occhio di vetro”, falegname in pensione che aveva perso un occhio in guerra, perennemente incazzato, e che si narrava possedere ogni tipologia di strumento da taglio accuratamente riposto nel garage di casa.

In questa maniera, con la scusa di dover cercare il tappeto, riuscivo a passare quelle due orette con i miei amici mentre mia madre, ogni tanto, dal balcone, ululava alla vallata come fossimo al Sestriere intimandomi di tornare indietro che quando sarebbe tornato da lavoro mio padre…

Sono andato avanti in questo modo, se non ricordo male, dai 4 ai 6 anni, poi ci fu una svolta definitiva nella mia vita. Sono diventata abbastanza alto, e furbo, da poter trafugare, dalla borsetta di mia madre, le dieci lire che servivano, all’epoca, per far funzionare l’ascensore.

Salendo in groppa ad un altro ragazzetto del palazzo, che però abitava al primo piano e non aveva avuto tutti i miei problemi, a cui però volevo bene lo stesso, riuscivamo a mettere la moneta nella apposita feritoia e a scegliere il piano da raggiungere, passando interminabili pomeriggi a fare su e giù, inventando i giochi più improbabili che si potessero realizzare in una scatola di metallo larga due metri quadrati.

Quando la voce si sparse, quando gli altri bambini vennero a conoscenza di questa meraviglia della tecnica, iniziarono a citofonare a casa chiedendo di Gigi. Mia madre non capiva. Io però si. Volevano giocare anche loro nell’ascensore, che le giostre sarebbero ritornate in paese solo per le feste patronali di ottobre. Eravamo a giugno.

Fu in quei giorni che capì che non sarebbe stato più necessario lanciare il tappeto giù dalla finestra, anche perché non avrei trovato nessuno di sotto per giocare, perché tutti i ragazzetti del quartiere erano disseminati per i pianerottoli del mio palazzo, ognuno ad aspettare il proprio turno per entrare in quella scatola magica che li avrebbe portati, alla velocità della luce, più o meno, verso un altro piano dove un gioco diverso li aspettava.

Andammo avanti così finché non scoprimmo l’esistenza dei giornaletti pornografici.

Share on Facebook