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Il sapore dell’uva

Ti porto in piedi sulla testa, da secoli, come la cuccuma d’argilla che le donne di qui andavano a riempire alla fiumara per gli animali e per la cucina quotidiana. Come loro ti porto, dritta sul collo, incurante dell’incombenza e delle ossa piegate. Mi stai appuntita negli occhi quando seggo sulla seggiola d’angolo di quella che era la nostra camera nelle estati affollate di bambini, fratelli, parenti e amici. Seggo e ti guardo.

La casa, quella che era di mio nonno, rifugio contadino tra gli ulivi, quella costruita col sapere di una volta, coi muri spessi per tenere il fresco e il caldo, bianca di calce e tufo, un po’ ti somiglia, così solida e regolare, e sussulta negli infissi al passaggio di un fischio di vento, raro da queste parti, soprattutto nella stagione. Strali di sole bussano alla finestra d’oriente e tagliano a fette l’aria già tiepida della mattina. Tu stai proprio lì in mezzo, come statua di gesso, fontana ad abbellire e dissetare l’aria secca della campagna.

Ti guardo mentre lisci i capelli corvini e mordi il labbro inferiore con i denti appuntiti. Ti guardo mentre stai molle sul letto sgualcito dal trambusto delle ore passate insieme. Ti guardo nella tua sottana dall’odore di cenere e sapone. Ti guardo, mentre l’unica cosa che vorrei essere ora è la curva che disegna il tuo ginocchio bianco poggiato di traverso sul materasso. Ti guardo e taccio, spettacolo inconsapevole della natura mentre tu non ti curi di me, sprofondata dentro la trama di un racconto fantastico che ti passa tra le palpebre e la nuca. Sei un albero accogliente sui cui rami mai più potrò essere ospitato a mangiare l’uva rubata dalle viti altrui, come si faceva da ragazzi. Ora mordo, per quello che posso, i frutti che lasci cadere maturi e generosi sulla terra. Ti mordo per farti più leggera. Ti mordo e scappo via come un ladro perché l’acqua e la cura avuti per farti crescere ed inverdire le foglie, ora, non viene più dalle mie mani e dalla mia schiena. Mordo ancora una volta e scappo. Poi, quando finirai, quando non ce ne sarà più di te, quando sarai tutta mangiata, quando sarai solo nocciòlo, aspetterò che un’altra stagione venga. Stai ancora una volta lì, come si conviene all’albero, mentre ti vengo a rubare e a farti più leggera. Stai lì, come adesso, fantasma di una passione antica al sapore di frutta. Stai lì, tienimi al fresco e proteggimi e ricordami che le cose rubate per fame di gioventù hanno tutte il gusto buono, dolce e appiccicoso dell’uva.

(foto originale di zunardu)

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Questo è l’ultimo dei tre post scritti per il Blog di Grazia e lo trovate qui. E’ stata una bella esperienza, da non ripetere se non a pagamento.

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