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Storia di un passero

piedi

C’era una volta un bambino, Mané si chiamava. Mané adorava i passeri. Mané amava anche il calcio, come era naturale per tutti i bambini di quel paese. Quando non lo trovavi ad impolverasi sui campetti di periferia, Mané era lì, ai margini della foresta, a guardare e ascoltare quella miriade pennuta, multicolore e allegra. Dalla foresta Manè aveva ereditato nel corpo la geografia impervia. Mané era storto, sghembo, curvo e frastagliato come poteva esserlo solo un torrente improvvisato, uno di quei rivoli impetuosi che animano il fitto della vegetazione durante la stagione delle piogge. Come un sentiero di montagna, la sua colonna vertebrale si arrampicava sull’esile corpicino dalla testa troppo grande, disegnando andirivieni panoramici dove i turisti si sarebbero potuti fermare a fare foto. Le gambe di Mané, poi, erano un atto di fede. Ogni osso era affetto da una malattia diversa, di quelle che a metterne i nomi vicino si rischia una gran confusione nella testa e  le sue ginocchia imboccavano direzioni diverse disegnando nell’aria angoli incomprensibili. Quel corpo dalla geometria strana segnava un ampio scompenso di lunghezza tra la gamba destra e la sinistra, come se al Creatore fosse finita la materia per completare l’opera. Forse quegli arti volevano essere un omaggio ai burattini del teatro delle marionette che ogni domenica alzava il sipario nel piccolo sobborgo dove il ragazzino abitava. Mané ricalcava le fattezze di uno di quei buffi pezzi di legno, arruffati e malvestiti, il brutto e povero tesoro di una piccola compagnia di artisti di strada.

La sorella di Mané, che gli voleva molto bene, lo chiamava “scricciolo” a causa di quella corporatura minuta e della camminata veloce e sbilenca.

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Un giorno di marzo, Mané, come tutti i giovedì, si trovò a raccattare palloni e bestemmie agli allenamenti della squadra cittadina che era impegnata nel campionato nazionale. Il caso volle che quel giorno, a causa di una febbre che aveva preso molti della panchina, Mané fosse chiamato a giocare una partitella contro i campioni. Entusiasta e impaurito, Mané si lanciò con fervore in quella inaspettata avventura. Quando i dirigenti della squadra videro sgambettare il ragazzino, quasi non crederono che quello scherzo della natura stesse calpestando la terra benedetta di un campo da calcio. Gli adulti, per farsi due risate prima di andare a tracannare un goccio al bar, improvvisarono Mané nel ruolo di ala destra. Dopo un attimo di confusione, lo sguardo un po’ strabico di Mané incrociò il cielo degli occhi di Nilton Santos, detto Enciclopedia, il più grande terzino sinistro di tutti i tempi. Fu in quel preciso istante, su quello stretto spazio di mondo delimitato da una linea bianca, che la vita di Mané cambiò per sempre.

Il racconto di quello che successe quel giorno impregna ancora, insieme al fumo di sigaretta e all’odore di moscato, l’aria e le pareti dei bar sport di tutto il mondo. Leggenda vuole che Mané, in quell’occasione, rifilasse a Nilton Santos, nell’ordine, due dribbling, uno a destra e uno a sinistra, un tunnel, un colpo di tacco a scavalcare e un sombrero. Si dice anche che Nilton Santos, infuocato dalla rabbia, prima cercò di rompere qualche osso al piccolo fenomeno poi, non riuscendo ad agguantarlo, convinse i dirigenti della squadra a tesserarlo.

Quello che avvenne dopo, invece, è storia documentata. Partita dopo partita, ad ogni passaggio di Mané lungo quella retta disegnata in bianco, andavano affastellandosi le carcasse degli avversari buttati lì come fossero ciocchi di legna da ardere in inverno. Imbattibile nei cross, insuperabile nel dribbling, con cieco coraggio Mané affrontava indomito ogni avversario. Più erano grossi e cattivi, più Mané provava gusto nel trovare modi sempre diversi per metterli in ridicolo. In poco tempo Mané divenne l’idolo della squadra finendo  così in nazionale, dove subito fu innalzato a beniamino di tutti i tifosi. Alegria do Povo, Gioia del Popolo, lo chiamavano nella lingua di quel paese.

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Un giorno, di quelli che tutti immaginano col cielo plumbeo e il vento freddo a spazzare il manto erboso, durante una delle tante partite disputate da Mané con la nazionale, avvenne qualcosa che lasciò di stucco tutto lo stadio. Di quello che successe ci sono gli schizzi fatti a mano dal decano di ogni bar sport appesi sopra il bancone e la storia si tramanda a voce di padre in figlio.

Si racconta che sul punteggio di tre a zero, Mané, in un’impetuosa discesa sulla fascia, accentrandosi verso l’area di rigore, saltò prima con facilità l’arcigno e corpulento terzino centrale, tale Robotti, rimbambì poi con una finta il portiere e, una volta solitario al cospetto della porta, invece di mettere la palla nel sacco, aspettò il ritorno del difensore, lo dribblò nuovamente e, solo dopo averlo messo a sedere, dopo una fragorosa risata, infilò la rete. Robotti, parecchio irritato da quel gesto, poco più tardi, in uno scontro di gioco cercato e voluto come un goal, entrò duro sul povero Mané che si piegò sotto il colpo come un ramo di palma sotto lo scroscio di una tempesta tropicale. Mané fu costretto così ad abbandonare il capo in barella. Frattura scomposta di tibia e perone della gamba destra e lacerazione del tendine di Achille, recitò poi il referto medico.

Quello che successe dopo, nessuno, nemmeno il più ubriaco del bar sport, vuole mai raccontarlo e son pochi quelli che conoscono la fine della storia, quella vera.

L’unico dato certo è che Mané non tornò mai più a giocare a calcio. Di lui si persero le tracce in una domenica di primavera, quando gli amici lo videro incamminarsi vero il chiosco dello stadio per prendere un panino e non fece più ritorno.

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La storia più credibile sulla fine di Mané é quella riportata nelle memorie dall’allenatore Peregrino Fernández. Fernández, assiduo frequentatore di bettole e gran giocatore di carte, racconta di un venerdì pomeriggio passato in una taverna del porto dove un marinaio scuro e alticcio cianciava delle stranezze di un uomo imbarcato sulla sua nave, un mozzo sbattuto e sempre ubriaco pure lui. Quell’uomo, mai visto prima, che nel mare ci sembrava stare a suo agio come un gatto nella vasca da bagno, passava il tempo libero guardando i gabbiani azzuffarsi a poppa e a sera, quando tutti si ritrovavano sotto coperta a bere e il mare si faceva mosso, amava gettarsi sul ponte principale, illuminato solo dalla luna, con il pallone sgonfio e rattoppato tra i piedi, a dribblare paranchi, canapi e fantasmi. Una di quelle notti, il marinaio raccontava, con il mare grosso e la ciurma ubriaca, il capitano, incuriosito da quell’uomo che consumava le assi del ponte con quel suo inutile andirivieni, chiese il perché di quell’ esercizio notturno e il mozzo, con gli occhi fissi appena sotto il cappello del graduato rispose: “Chi nasce nella sfortuna impara in sacco di cose tranne che a far fronte ad un’improvvisa fortuna. Così, col mare alto che culla il mio pensiero, vado alla ricerca della perduta sfortuna, di quelle due gambe dispari che Iddio mi aveva regalato e che la medicina e l’insistenza dell’uomo ha restituito alla normale parità e alla mia disperazione. Su questa nave prendo in giro la fortuna che mi ha restituito al mondo dei sani e anche se non ci sono applausi a sostenermi, quando l’onda scende a sinistra, io scarto a destra e torno felice. Sono su questa nave a rifiutare la sorte. La prego, non mi faccia scendere mai più.”.

Fine

Manuel “Mané” Francisco dos Santos, meglio noto con lo pseudonimo di Garrincha, che nella lingua del suo paese, il Brasile, vuol dire “scricciolo”, morì a Rio de Janeiro nel 1983 a causa di una cirrosi epatica dovuta alla sua passione per gli alcolici. Vinse con la sua nazionale due campionati del mondo. Questa storia è liberamente ispirata alla sua vita. Alcune cose son vere, altre verosimili, molte inventate.
Le Memorie del Mister Peregrino Fernández, invece, sono un racconto si Osvaldo Soriano. La citazione è un umile omaggio a quell’impareggiabile narratore di cose di vita e pallone.
Questo scritto era stato pensato per comparire nella raccolta di racconti Cronache di una sorte annunciata ma poi niente, me l’ha mangiato il cane.
Ora il cane è morto, pace all’anima sua, e me l’ha restituito.

(Immagine di testata qui)

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