La storia di come si ruppe il tempo.

Aveva dei pantaloni stretti in vita e indossava una maglietta bianca altrettanto aderente che le metteva in mostra il piccolo seno e le anche sporgenti. Io ero seduto mentre lei si dondolava proprio di fronte alla mia faccia. I capelli erano scuri, non neri, e cadevano sulle spalle da una parte, raccolti in un’onda precaria che si disfaceva sotto il mio sguardo. Il suo viso ospitava degli occhi grandi e verdi e un naso importante e le labbra, quelle erano giuste, niente da dire. Era alta, me ne accorsi dopo, quando si mosse verso la gente che affollava il vagone del metrò. In media dava ad ognuno una decina di centimetri. Era indubbiamente bella, pensai, e stava leggendo da un grande quaderno a quadri quelli che sembravano essere appunti di trigonometria o algebra, non saprei dire con precisione, non me ne intendo molto.

Una ragazza così bella non dovrebbe leggere cose così noiose, pensai. Una ragazza così bella dovrebbe poter leggere solo romanzi d’amore o di guerra, magari anche racconti dell’orrore o storie di fantascienza, avere a che fare con i dubbi dei grandi filosofi, struggersi per le passioni travolgenti di nobildonne russe, stringersi nelle spalle per la tensione di una corrida, prendere parte per il toro o per il torero e altre cose del genere.

Decisi perciò che ragazze così belle dovessero leggere solo cose che possano mettere in risalto i loro lineamenti, cose di sofferenza, gioia o paura per farle indossare le espressioni della vita, perché è da come ti spiegano il mondo sul loro viso che si capisce se ne vale davvero la pena. Niente matematica, insomma. L’espressione che mette sul viso delle donne la matematica non mi ha mai convinto più di tanto.

Poi pensai che la matematica potesse anche piacerle. lo si poteva intuire dall’avidità con cui leggeva quegli appunti, forse compiaciuta di averli stilati in maniera così precisa o forse mi stavo sbagliando e non le importava niente. Doveva essere un tipo interessante, azzardai.

Mentre lei leggeva io avevo smesso, investito da tutti quei pensieri improvvisi. Non risucivo a smettere di guardarla, e la gente intorno se ne era accorta. Lei invece no, non se ne era accorta, immersa com’era nelle sue cose. Magari anche lei aveva la testa piena di pensieri; un esame imminente, forse un test di ingresso per ‘università. Pensai allora alla fortuna dei suoi futuri compagni di corso. Averla lì tutto il giorno, con quei capelli, quella bocca, gli occhi e tutto il resto, mentre copiava dalla lavagna formule di chimica organica o matematica finanziaria. Sì, dovevano essere decisamente fortunati quelli, potendo raccontare ai lori padri che i soldi per le tasse della retta non erano buttati al vento. Poi pensai che no, non dovevano essere tanto fortunati. Voglio dire, come ero stato mortalmente colpito nella mia attenzione per quello che stavo facendo prima che lei comparisse, anche loro sarebbero stati succubi di quella vicinanza. Anche loro sarebbero inevitabilmente caduti nella trappola dispiegata da quella bellezza e mai se ne sarebbero liberati. Pensai a loro, e non sapevo se considerarli fortunati o meno per quell’incontro. Poi decisi che sì, erano davvero fortunati perché potevano permettersi di star lì tutto il giorno a far niente, con la buona scusa di non poter distogliere lo sguardo da quella creatura, mentre tutto il resto continuava a muoversi, mentre lei continuava a fare le sue cose e non le importava niente del mondo e nemmeno di te.

Poi lei scese a San Babila e, con fatica, le cose ripresero ad andare, ma non proprio come prima. Le cose andavano più lentamente, come se qualcuno le avesse messe insieme dopo che fossero cadute in terra ma il lavoro non era stato fatto a regola d’arte. Le cose senza di lei sembravano rattoppate, come mancanti di un pezzo finito sotto un vecchio mobile che nessuno vuole spostare perché chi sa cosa ci si può trovare.

Fu così che si ruppe il tempo, alle nove del mattino tra San Babila e Palestro e nessuno ancora lo ha aggiustato come si deve.

*(foto mia)

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