Festa.

Era il primo di Maggio, il giorno del mio compleanno. Una giornata tiepida si stendeva sul fresco-umido del Forte Prenestino. Ci ero arrivato il pomeriggio presto, quando il sole era caldo. Era il giorno della Festa del Lavoro, ma ancora c’era poca gente. L’atmosfera era tranquilla e il tempo passava piano, mentre veloci passavano di mano in mano le bottiglie. Nelle orecchie e sui volti, le chiacchiere e le risate mischiavano la parlata romana ai dialetti di mill’altri posti. Intorno, la musica suonava confusa tra il punk delle casse e le chitarre acustiche dei molti capannelli. Distratto dai suoni, dai colori e dalle scritte delle magliette inneggianti al potere operaio, il tempo passava e la corte cominciava a riempirsi di gente, e la rilassatezza di poche ore prima andava trasformandosi in una concitata sfilata di personaggi sempre più bizzarri. All’imbrunire, il volume e il ritmo della musica si alzava, le note si impastavano e sfumavano in sonorità sempre più acide ed elettroniche. Una volta sceso il buio nel piazzale, ormai stracolmo di gente, le luci calde del palco lasciarono spazio al freddo blu della consolle di un dj e tutto prese a muoversi a scatti sotto la sferzante pioggia luminosa dello strobo.

A causa del miscuglio di cose che erano successe nel pomeriggio, era da un po’ che viaggiavo leggero sulle gambe e nella testa e, come capita qualche volta, ad ogni bicchiere o ad ogni incontro andavo a stare sempre meglio. La festa sembra essere entrata nel vivo e il popolo variegato e alticcio del Forte aveva preso a muoversi sul ritmo della musica. Ogni tanto, nel mio peregrinare sconclusionato, mi fermavo da qualche parte dove la compagnia danzante sembrava essere più caparbiamente impegnata sul ritmo spezzettato e pulsante sputato dagli amplificatori. Il freddo era sceso abbastanza pungente dalla collinetta di alberi oltre le mura della fortezza, e io avevo indosso solo una felpa della quale avevo tirato su il cappuccio. A capo chino, continuavo a muovere il corpo e seguire la musica senza che alcun specifico pensiero mi attraversasse. Con gli occhi in parte chiusi e la testa bassa a penzoloni sulle note, ad un tratto, vidi farsi largo, tra le molte gambe di quella geografia di corpi, delle ginocchia che si muovevano in maniera particolare, con una leggerezza felina e un passo cadenzato e sinuoso al quale sembrava dovesse seguire sempre un rovinoso schianto di ossa e che invece si trasformava in un’altra squilibrata esibizione di grazia. Alzando lentamente lo sguardo, mi accorsi che su quelle gambe magre e incerte si dondolavano un busto e delle braccia da danzatrice del ventre araba, da dea Kali punk vestita di nero. I suoi erano movimenti sensuali, che stridevano, assolutamente ordinati, con la durezza di quella musica che ormai era da rave. Capitò così che ci trovammo occhi negli occhi in mezzo a quella folla. Non so per quale strana coincidenza di intenti, decidemmo che avremmo eseguito insieme le prossime figure di quella danza tribale in cui lei era maestra. Ci scambiammo più volte di posto, roteando come dervishi, saltellando come sciamani indiani intorno al fuoco, non so quante volte, l’uno di fronte all’altro, poi di fianco, sfiorando le schiene e le braccia nella misurata concitazione dei nostri movimenti. Durante quel tempo, fumammo qualche sigaretta insieme e bevemmo la birra che avevo ancora nel tascapane, senza smettere mai di ballare e senza dirci una parola. Sotto la frangetta scura di quel curioso essere lampeggiavano occhi grandi di un profondo blu.

Le ore passarono così. Fuori dal nostro cerchio ridotto a due, la confusione era assoluta e la musica sfrigolava su un ritmo incalzante che a un certo punto non riuscii più a seguire. Le ginocchia erano provate, avevo finito da bere e la polvere del piazzale, insieme al tabacco fumato, mi ardeva in gola. Mi fermai. Rispettando quel silenzio sacrale calato sin da subito tra noi come fosse una specie di bolla protettiva che ci separava dal frastuono esterno, presi la strada dello spaccio per andare a comprare da bere. Ne presi anche per lei. Quando feci ritorno al punto in cui l’avevo lasciata, lei non era più lì. Pensai, rammaricandomi, che fosse andata via o che avesse cambiato compagnia e che sarebbe stato difficile, se non impossibile, ritrovarla in quella bolgia.

Feci qualche passo per togliermi di mezzo e per bere in pace. Vidi la sua sagoma, in controluce, avanzare nuovamente verso di me, dondolandosi nel suo passo caratteristico; era andata a procurarsi da fumare. Le allungai una birra, sorridendo, e lei ricambiò stampandomi nella bocca un profondo bacio che sapeva di terra, fumo, gioventù e mondi interi. Poi scomparve tra la gente e quella fu l’ultima volta che la vidi.

Quando torna il primo di Maggio, il giorno del mio compleanno, torno a cercare nella testa quella ragazza, quegli occhi, quell’incrociarsi di corpi lungo una notte, quel punto esatto dove lei mi baciò e sparì per sempre inghiottita dalla folla della festa.

Nei miei ricordi è sempre lì, bella come quel giorno bello. Certe volte trovo quella ragazza nei baci di chi, quel giorno, negli anni a venire, mi ha baciato. Certe altre volte no.

(foto di Tony Meraviglia)

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